Uno spicchio di cielo

Dalla finestra del mio ufficio riesco a vedere uno spicchio di cielo.
Un tetto spiovente, con un piccolo terrazzo tagliato di traverso; un comignolo, qualche finestra. Perfino delle piantine, che hanno trovato il modo di crescere in mezzo alle tegole.
 
È già molto, in una città dove, di solito, se ti va bene vedi le finestre del palazzo di fronte. Qualcuno, addirittura, la rampa di un garage.
 
In un post di qualche settimana fa Sir Squonk si chiedeva se la collocazione degli uffici di alcuni blogger – e la vista che se ne gode, deduco – dipendesse dalla classifica di Blogbabel (sì, lo so che non se lo chiedeva sul serio, ma posso dirgli di no, almeno per quanto mi riguarda).
 
Io non mi posso lamentare; nell’ufficio di prima il balconcino era circondato da grate e, se provavi a infilare la testa tra l’una e l’altra, nel fondo del pozzo di luce potevi scorgere qualche topo a passeggiare (nel pozzo davano le cucine del pub vicino e si sa, dove c’è cibo…).
Però dalle finestre aperte qualche volta saliva profumo di cucina, e qualche volta anche la musica di chi, durante il giorno, provava poi per la sera: un sax e un piano che intrecciavano le loro melodie.
 
Qui se non fa freddo a ora di pranzo è il suono di una fisarmonica che si fa strada verso l’alto: il repertorio è ampio e varia a seconda degli avventori, nel bar giù sulla strada.
 
La costante forse è questa… musica e cibo. Chissà.
 
Una volta erano invece gli storni: interi stormi, nuvole nere che disegnavano nel cielo sopra il laghetto dell’Eur. Splendidi da lontano, assordanti se visti da vicino.
 
Sono cambiate molte cose, da allora.
Sono cambiata anch’io; nel bene e nel male, come tutti.
 
Ora, più di allora, mi chiedo se il mio lavoro, quello che continuo a fare malgrado i cambiamenti, sia utile o no, se la mia presenza fisica, qui, sia necessaria.
Mi chiedo se – a parte il passaggio del badge – ci sia modo di accorgersi della differenza, visto che le stesse cose potrei farle da casa; a volte lo faccio, in verità.
È come se ogni giorno fosse uguale all’altro, ogni parola la fotocopia della precedente: giornate piene di vuoto, cicli che si ripetono senza eccessive variazioni.
Non ti chiedono di più perché non sanno ancora cosa dovrai fare, domani.
E quindi basta seguire la routine – ormai ci metto poco, sono diventata bravissima – per fare tutti contenti.
Tutti tranne me, forse.
 
Ma torno a guardare fuori, verso uno spicchio di cielo.
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8 risposte a Uno spicchio di cielo

  1. silvia67 ha detto:

    Uh, che malinconia autunnale ricciolina.
    Ma quanto c’è di vero in quel che dici; tante volte, troppe chiediamo a noi stessi impegni stremanti nella illusione di essere indispensabili, poi ci fermiamo un attimo e ci rendiamo conto della ruota da criceti su cui giriamo inutilmente ma affannosamente.
    Io tra un po’ di tempo avrò una pausa di riflessione imposta da ben altre priorità; chissà se al rientro da essa la mia visione sarà differente e di quanto.
    Un grattino sul pancino morbido tra gli aculei 😉

  2. riccionascosto ha detto:

    Secondo me dopo sarà differente per forza, Silvia, proprio per i motivi della pausa. Ci sono cose che ti cambiano (o almeno dovrebbero). 😉

    I grattini sono sempre graditi, comunque. Anche dopo (questo no, non cambia) :))

  3. cybbolo ha detto:

    vado indietro nel tempo: a Bristow, la strip di Linus degli anni sessanta, a Fantozzi, anni settanta, a Camera Cafè dei giorni nostri, e mi convinco che nulla di nuovo c’è sotto il sole, a parte il cielo sempre più blu (per il buco dell’ozono yeeeeaaahhh) e a parte le capacità di adattamento e reattività.
    mai come in questi casi uno sberleffo ci può salvare…

  4. metallicafisica ha detto:

    oggi qui il cielo è bluuuuuuuuuuu;-)*

  5. riccionascosto ha detto:

    Uno sberleffo salva sempre, Cyb.

    Sorellona, lo conservo anche per i giorni d’inverno, grazie 🙂

  6. didolasplendida ha detto:

    il mio ultimo ufficio era in una torre di 31 piani al centro direzionale di Napoli, eravamo sotto vuoto spinto, come il caffè, non si sentiva niente e si vedeva poco, tutto chiuso ermeticamente. Prima di spostarci lì eravamo in un palazzo a via marina, all’altezza del famigerato incrocio con piazza G.Pepe, e qui era un vero sancarlino, specialmente quando a dirigere l’incrocio si metteva un finto vigile (un signore fuori di testa).

  7. Petarda ha detto:

    hai la luce accesa? io sì. ti rendi conto??? la casa è ancora avvolta nelle tenebre e sono le 10 del mattino!

  8. riccionascosto ha detto:

    Dido, ma che è un sancarlino? (immagino una gran confusione, un “teatro”, dal San Carlo, sì?)
    Ecco, gli uffici “a chiusura ermetica” io li trovo tristi, anche se da fuori i vetri a specchio, magari, possono sembrare suggestivi. Magari, eh. 😉

    Pet, la luce è spenta (anche perché stamattina se n’è andata due volte). Ma è perché a me, al pc, piace stare in penombra…
    Cielo grigio anche qui, insomma.

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