Riflessi

Il suono dei martelli e le grida di richiamo si erano rincorsi per il vialone, arrampicandosi fino alla sua finestra.

Lo spiazzo abbandonato in fondo alla strada si era acceso di colori e movimento. Pareti di legno e stoffa, palloncini svolazzanti e lunghe assi di metallo sembravano essere sorti dal nulla, come funghi di tanti colori. Poi camion e gente indaffarata a scaricare, spingere, svuotare, alzare, puntellare, pulire e rammendare. Un caos apparente, dal quale a poco a poco nasceva un nuovo mondo.

“Un luna park”, si disse dietro le persiane accostate da cui osservava il variopinto formicaio. La curiosità che l’aveva portata alla finestra la trattenne per qualche tempo a vagare con occhi distratti tra  le baracche. Poi, all’improvviso, il suo sguardo fu attirato da una luce che quasi l’accecò.

Un raggio di sole aveva colpito  una superficie curva, rifrangendosi in ogni direzione.

“Uno specchio”, si disse, indietreggiando senza volerlo.

Poi si ricordò della protezione datale dalle persiane e tornò a guardare.

Non uno, ma tanti specchi, diversi l’uno dall’altro per dimensione e forma, venivano scaricati da un camion e portati dentro un tendone scuro.

Non aveva bisogno di vedere altro. Sapeva già cosa stavano costruendo, lì dentro.

Le bastava guardarsi intorno.

Si girò lentamente, riluttante a separarsi dalla luce del giorno che, ormai da tempo, aveva bandito dalla sua stanza.

Le pareti erano disseminate di specchi: grandi e concavi, piccoli e convessi, lunghi e ondulati. Nessuno di loro restituiva la stessa immagine, ma tutti insieme avrebbero riempito la stanza di una luce impossibile da sopportare, se solo avesse permesso al sole più di quei raggi filtrati che le persiane lasciavano passare.

La sera bastava una candela a illuminare di luce tremolante l’intera camera. Allora diventava ancora più importante serrare le imposte e chiudere le tende pesanti, perché nessuno si chiedesse quale fosse l’origine di tanto chiarore.

Una volta sapeva il motivo di tutto questo, ora non più.

Ricordava il volto serio di suo padre quando, piccolissima, le spiegava che quella, d’ora in poi, sarebbe stata la sua casa. Non riusciva però a rammentare le parole che avevano accompagnato il suo sguardo, allora. Solo il rumore della porta che si chiudeva, e poi i suoi occhi che la guardavano dalle pareti.

Non era mai stata sola, da quel momento, eppure quasi nessuno veniva a visitarla.

Ogni giorno la vecchia nutrice saliva le scale portandole cibo e bevande. Poi si accingeva a pulire, dopo averla salutata con un cenno del capo ed uno sguardo che non capiva bene. Sempre in silenzio,  raccoglieva un foglio con le richieste per l’indomani e andava via.

Il suo mondo era racchiuso lì, tra quelle pareti intervallate di specchi. Grazie a loro conosceva il suo volto, sempre uguale e sempre diverso. Aveva i suoi preferiti: lo specchio tondo in corridoio le dava sempre un’aria un po’ buffa che le era di conforto nei giorni grigi, mentre quello lungo, nella sua stanza, le consentiva di drappeggiarsi addosso le lenzuola, o travestirsi, e fingere di avere visite.

Prendeva allora il servizio da tè e lo disponeva con grazia sul tavolino: un gioco che aveva iniziato con sua madre, da piccola, e che ora continuava da sola, sbocconcellando a turno, dai piattini, i pasticcini che aveva servito.

A volte cantava, spazzolandosi i lunghi capelli corvini: un poco per distrarre la mente dal dolore nel districare i nodi, un poco per non dimenticare il suono della sua voce.

Più spesso il suo divertimento era guardare la vita fuori dalle sue finestre: i rumori della strada, i passanti frettolosi o quelli che strisciavano il passo, attardandosi. Inventava le loro storie, scrivendole nei grossi quaderni che non si faceva mai mancare, e li salutava, riconoscendoli da dietro le persiane, quando tornavano a passare di là. 

Non aveva mai pensato di farsi vedere, però. Il mondo esterno, seppure a portata di mano, le sembrava qualcosa di lontano e irraggiungibile. Sentiva che, se si fosse rivelata, non sarebbe mai più potuta tornare alla tranquillità delle sue stanze e questa, in un modo oscuro, era una assoluta certezza.

Il sole era già tramontato, ma le luci in fondo alla strada creavano uno spicchio di giorno. E c’era musica, poi, allegra e sfrontata, e voci, e risate, e colpi di fucile ad aria compressa. Il vento della sera portava con sé un odore dolciastro: zucchero filato, e caramello, e mandorle tostate. Li conosceva, quegli odori, anche se da tanto tempo non ne sentiva il sapore. Erano gli odori della festa del paese, quando tutte le strade si riempivano di gente per la processione. Erano gli odori dell’allegria, della vita. Gli odori di fuori.

 

Fu al secondo giorno che decise: doveva andare lì. Magari nella casa degli specchi c’era qualcuno come lei, qualcuno con cui parlare e che avrebbe capito, finalmente. Qualcuno con cui non vergognarsi del suo aspetto strano, del suo viso irregolare e mutevole. Qualcuno che avrebbe visto oltre, che avrebbe condiviso con lei pensieri, e musica, e risate. Qualcuno da toccare, oltre lo specchio.

 

Attese l’oscurità, per muoversi. Aveva sempre avuto una chiave con sé, ma non l’aveva mai usata. Ora, invece, era arrivato il momento.

Si coprì tutta con un mantello e fece scivolare il cappuccio fino agli occhi, poi tirò piano la porta e uscì.

Quando mise piede in strada fu quasi sopraffatta dallo spazio che vide intorno a sé. Il cielo stellato, la strada, i campi intorno sembravano molto più grandi di quanto il quadro della sua finestra lasciasse intravedere. Si strinse nel mantello e contro il muro cercando conforto dal contatto, e si diresse verso il luogo in cui luci e suoni la chiamavano.

Nessuno la vide, o nessuno sembrò fare caso alla figuretta che camminava a passo svelto verso la casa degli specchi, che raggiunse in poco tempo.

Allungò una banconota alla cassiera distratta, e in un attimo fu dentro.

Era come sentirsi a casa: le pareti scure, i grandi specchi che le rimandavano la sua immagine, ogni volta diversa.

Sussultò quando si accorse di non essere sola. Sentiva le voci, ma non riusciva a vedere da dove provenissero. Un po’ più avanti, sembrava. E proprio quando pensava di tornare indietro, altre voci alle sue spalle la spinsero in avanti a trovar rifugio nel labirinto.

Poi li vide: prima negli specchi, corpi allungati fin dove era possibile, visi da cavallo e bocche enormi. Voleva fuggire, ma si disse ancora una volta che loro sì, loro avrebbero compreso, e si fece forza.

Non era preparata, però, a quello che vide fuori dallo specchio: due ragazzini che ridevano e si davano pacche l’un l’altro, indicando le loro immagini deformate.

Non riusciva a fermare lo sguardo, che vagava incessante tra lo specchio e i bambini ridacchianti. Poi si accorse che anche la sua immagine era entrata nello specchio, e torreggiava sulle altre. Anche gli altri se ne accorsero, e si volsero verso di lei ma, come non si aspettava, continuarono a sorridere, chiamandola a sé.

Invece di raggiungerli corse via, le lacrime che le solcavano il volto e le impedivano di vedere. Solo l’abitudine agli specchi le consentì di trovare l’uscita, ma inciampò e cadde su qualcosa di duro. Quasi senza accorgersene lo raccolse e proseguì la sua corsa fino a che si fu chiusa la porta alle spalle.

Si fermò, ansante, sulla soglia.

Anni di silenzio e solitudine si sciolsero nei singhiozzi che la scuotevano. Si strinse addosso il mantello, e nel farlo fece cadere qualcosa.

Era un piccolo martello, l’oggetto su cui prima era inciampata.

Sapeva cosa fare, ora.

Ad uno ad uno, ruppe gli specchi della casa, fino a che il pavimento fu pieno di frammenti luccicanti che crocchiavano ad ogni suo passo.

Poi tolse il mantello, indossò una giacca ed uscì senza voltarsi indietro.

Fu allora che, per la prima volta, sorrise.

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17 risposte a Riflessi

  1. fuoridaidenti ha detto:

    e una bella martellata sulla testa al padre e alla nutrice no eh? 😀

  2. Zu ha detto:

    bella, Riccio!
    (riecheggia Brezny, accompagnato da Jimi Hendrix)

  3. metallicafisica ha detto:

    Mostrare il vero “essere” è un rischio… a volte puo’ spaventare anche noi stessi ma prima o poi hai ragione, le carte vanno scoperte…

    ps: calma ha ragione, però… noi dobbiamo trovare la forza di Mostrarci come siamo ma chi ci sta intorno ci deve spronare a farlo…
    brava, sorellona! E non lo dico perché siamo parenti:)***

  4. riccionascosto ha detto:

    Fdd, ci sono porte che dobbiamo aprire da soli, non importa chi le abbia chiuse (la chiave, lei, l’aveva sempre avuta, no?) 🙂

    Zu, epperforza Brezsny. Lo sai che c’era in ballo, questa settimana, no? (Chiariamo la tua situazione, Cancerino. Fino a poco tempo fa, metaforicamente parlando, vagavi in un labirinto di specchi. Poi hai trovato un martello per terra, sei stato preso da un impulso distruttivo e hai cominciato a spaccare gli specchi – sempre metaforicamente parlando. Quello è stato il primo passo per trovare l’uscita. Adesso sei pronto per il passo successivo: la fuga vera e propria. Mentre esci, ti consiglio di stare attento a non tagliarti con i frammenti di vetro. La liberazione è vicina, non hai bisogno di affrettarti. Procedi con calma e con molta attenzione verso il battito cardiaco che, metaforicamente parlando, senti in lontananza.). Jimi Hendrix mi è meno chiaro (ma invece tu dimmi, il battito cardiaco non sarà il battito animale?)

    Sorellona, le carte vanno scoperte sì, ma solo quando si è pronti a farlo. Altrimenti il piatto potrebbe non essere sufficiente. ;)))

  5. riccionascosto ha detto:

    Ooopsss, Zu, mi era sfuggito il link (sì, meglio Hendrix che Raf, in quanto a testo. Però quel battito lì, non so perché, mi ha fatto sempre un certo effetto)

  6. Effe ha detto:

    l’idea mi piace molto
    la reclusione imposta/volontaria
    Sono certo che non ne è mai uscita, e il martello è solo un incubo

  7. riccionascosto ha detto:

    Un incubo, Herr? Per lo specchio, senz’altro 😉

  8. Wosiris ha detto:

    quel che dice il signor effe è una possibilità che anch’io caldeggio.

    ma mi chiedo anche cosa sarebbe successo se gli specchi li avessero messi davanti alla sua finestra, anzi, tutti intorno alla sua casa. le sarebbe toccato di inventarsi la sua di storia. ed in questo caso un martello l’avrebbe aiutata?

    ciao

  9. riccionascosto ha detto:

    Wos, in quel caso sarebbe stata tutta un’altra storia. E no, in quel caso il martello sarebbe stato forse un ulteriore incubo. Però non so, in fondo io non sono altro che una siciliana rromantica (sì, con due r) che non ama le fini tragiche. Ci dovrei pensar su.

  10. didolasplendida ha detto:

    si guarda, si ri-flette, ci si accetta si rompono gli specchi, rischiando anche di ferirci con le schegge, e si vive.
    Bella la metafora del luna park come vita, a me le montagne russe fanno paura, gli aeroplanini devono volare basso e la mia preferita è la giostra coi cigni e la musica viennese.
    🙂

  11. riccionascosto ha detto:

    Dido, anche a me le montagne russe a volte fanno paura, e prima di decidere di salirci ci metto un poco. Però quella sensazione di vuoto e di aspettativa che hai quando la salita sta finendo, e inizia la discesa, allo stesso tempo fa paura e mi piace troppo. E’ come una vertigine, che in una canzone Jovanotti (anzi, Lorenzo Cherubini) dice “non è paura di cadere, ma voglia di volare” (mo’ se lo diceva prima qualcun altro non lo so, io questo mi ricordo). E’ vita, insomma.
    🙂

  12. Effe ha detto:

    nessuno di noi vuole davvero rompere i propri specchi

  13. riccionascosto ha detto:

    No, è vero, Herr. Non tutti, almeno.
    Ci sono specchi che servono per proteggere, per creare falsi bersagli o coperture al nostro io più intimo.
    Poi ci sono gli specchietti per le allodole. Ecco, quelli vanno eliminati. Ma sicuramente, dall’esterno.

  14. Iddi0 ha detto:

    ricordatevi i sette anni di guai.
    Io ve l’ho detto, eh.

    Domine Iddio

  15. riccionascosto ha detto:

    Ma come, Iddi0,
    la superstizione non era peccato?

  16. giorgi ha detto:

    Sono d’accordo con Iddio (mi capita di rado, in verità…)
    Andarsi a cercare così la sfiga mi sembra un po’ troppo, eh!
    Ciao riccetto

  17. riccionascosto ha detto:

    A volte, però, la sfiga va sfidata – e vinta – per una posta che vale di più.
    (Vedi, ad esempio, questo è il commento n. 17, ma potevo evitare di scriverlo? No, certo, era più importante rispondere a te) 😉

    Ciao, Giorgina :)))

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